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Eugenio Sournia al Firenze Rock. Fonte: Instagram

EUGENIO SOURNIA

Eugenio Sournia è un cantautore italo-francese classe 1991. É noto per essere stato il frontman del gruppo livornese I Siberia, scioltosi nel giugno scorso.

Potete trovare Eugenio su Instagram, i Siberia su Instagram e Facebook.

Per la sua musica? É tutta qui.

Come pensi che sia cambiato il concetto di discografia negli ultimi anni?

 

Io penso che dall’epoca del supporto fisso, che sia vinile, cassetta o cd, si è assistito ad un processo, di come dire, di democraticizzazione del medium, se prima realizzare un disco aveva dei costi e delle procedure complesse e costose, in qualche modo negli ultimi 15-20 anni sia la produzione sia soprattutto la realizzazione di questi prodotti è andata incontro ad un abbattimento dei costi importante. Precedentemente all’avvento del digitale, realizzare un disco era un qualcosa che prevedeva un investimento assai cospicuo, quindi diciamo che in qualche modo le case discografiche avevano davvero il potere di scegliere quali attori far entrare nel mercato discografico. Perché uno non aveva spesso, a meno che non fosse il figlio di una persona molto ricca, la capacità di realizzare da solo un prodotto di livello professionale. Ora con poche centinaia di euro di equipaggiamento e le giuste conoscenze si può realizzare un prodotto che suona come uno prodotto professionalmente. Penso banalmente alla Trap, che in qualche modo ha fatto di questo al suo marchio di fabbrica. Penso a Lil Peep che si registrava da solo con equipaggiamenti da poche centinaia di dollari. Questa cosa secondo me da una parte è un bene, ma dall’altra ha fatto sì che in qualche modo il fatto che il disco non abbia più costo per l’utente finale ha fatto si in qualche modo che la estrema democraticizzazione della produzione e della fruizione del prodotto musicale ha portato purtroppo un po’ a un appiattimento del livello medio. Tantissimi attori che prima sarebbero stati lasciati fuori, adesso entrano nel mercato. Manca quel filtro che prima era esercitato dai costi e case discografiche, che faccia si che comunque si riesca a trovare l’artista più sperimentale o l’uscita tanto attesa. Se prima la si trovava tra 10-15 uscite ora la si trova tra centinaia…il che è molto più difficile per chi ascolta a trovare, e per chi produce a farcela. 

 

Pensi che grazie all’avvento del digitale, il concetto di “esportare la propria musica all’estero” esista ancora? Mi spiego meglio, esiste ancora l’estero musicalmente parlando, secondo te?

 

C’è stato da parte di alcune case discografiche, come la Bomba Dischi, di far fare delle piccole tournée europee ai propri artisti di punta, secondo me ha ancora senso. Oggi, l’estero è dettato molto anche dalla localizzazione su Spotify. Per esempio io per un periodo ho avuto Spotify Francese, quindi le mie varie playlist erano tarate nelle uscite francesi. In qualche modo sì, ha senso parlare di estero proprio perché negli ultimi 4-5 anni in Italia c’è stato un ritorno di massa alla musica italiana. Ricordo che fino ai primi anni dieci, fino a prima dell’esplosione del fenomeno ItPop, in Italia chi era interessato di musica, ascoltava principalmente musica anglosassone, estera. Il pubblico era ben diviso tra chi ascoltava i vari Eros Ramazzotti, Emma Marrone, Laura Pausini, e chi invece si andava a recuperare le cifre estere, e c’era una piccola quota di artisti indipendenti italiani, come i Marlene Kuntz, Il Teatro degli Orrori, gli Afterhours, Le Luci della Centrale Elettrica, che però erano una nicchia ben definita che non facevano parte delle uscite di massa. Invece, negli ultimi 4-5 anni secondo me con il fenomeno dell’Itpop e dell’Indie italiano di massa c’è stato un forte recupero dell’identità nazionale anche di chi ascolta musica in maniera meno abituale. Proprio per questo oggi ha nuovamente un po’ più senso parlare di estero perché ora in Italia si ascolta, credo principalmente, musica italiana. Questa cosa chiaramente dà un senso al provare ad esportarla. Chiaramente diventa difficile con un mercato sempre più globalizzato.

 

 

Quest’anno è stato duro per tutti i lavoratori dello spettacolo. Molti concerti sono stati annullati, e purtroppo molta gente vive precariamente da quasi un anno ormai. Come hai vissuto questo periodo così difficile? Pensi che l’industria discografica sia stata particolarmente svantaggiata o che comunque grazie al tempo che abbiamo dovuto passare in casa, si siano sviluppate le produzioni? 

 

Io personalmente questo periodo l’ho patito molto. Con I Siberia avevamo lavorato per un anno e mezzo alla realizzazione di un disco, sai attraverso i live un disco cresce, perché portarlo in giro fa parlare di te. Avevamo fatto qualche live, e per molti i nostri live sono stati gli ultimi perché avevamo suonato fino al 23 febbraio, addirittura abbiamo suonato a Bergamo il 21 febbraio. Sono stati dei live molto appaganti, e si sentiva che c’era un certo fermento attorno al gruppo. Il lockdown e i mesi successivi sono stati una grossa delusione, almeno a livello Siberia. A livello personale, quei mesi sono serviti per realizzare, banalmente che avrei voluto continuare da solo, per una serie di cose. Mi sono anche rimesso a scrivere. L’impatto iniziale mi ha portato anche un’ispirazione e delle riflessioni anche positive. Purtroppo la seconda ondata è stata anche peggiore della prima perché si è capito che si tratta di un problema non passeggero, ma che persisterà forse a lungo. Io temo purtroppo che, un po’ come in tanti settori della vita si stia andando di più verso una digitalizzazione. Se già il processo di digitalizzazione della musica era avvenuto nelle produzioni, il fatto che si sia creata un po’ una giurisprudenza, dei precedenti rispetto a degli spettacoli in streaming a pagamento, l’attenzione data ad X-Factor, una delle pochissime forme di intrattenimento musicale rimaste, un Sanremo nella bolla con tantissimi artisti della scena indie… Il problema è che quando il digitale entra in un ambito è molto difficile poi toglierlo. È ovvio che tutti sappiamo che l’esperienza del concerto rimane quella ottimale, però purtroppo a mio avviso, se le restrizioni rimarranno per un numero sufficiente ancora di mesi, la gente farà in tempo a disabituarsi ai concerti. Diciamo che c’era stato un rinascimento del concerto in Italia, temo che questa cosa sia persa. Ho visto Nick Cave fare concerti streaming a pagamento, e penso che sia un precedente che non debba ripetersi, anche per tutti i fonici, i tecnici, e ai roadie che lavorano attorno ad un concerto. Io per esempio ho due cugini che fanno i fonici in Francia, e so che lì esiste la figura dell’intermittente dello spettacolo che riceve sovvenzioni in momenti in cui non può lavorare. Da noi l’aspetto è molto meno regolato, gran parte del mondo vive nel nero, e la situazione è molto più drammatica.

Se io a febbraio 2020 pensavo a me stesso come un professionista, ora come ora…no. Non vi ho rinunciato solo per una ragione economica, ma perché non mi piace la direzione che la discografia e che la musica sta prendendo al giorno d’oggi.

 

 

Che ruolo ha la radio nella vita degli artisti di oggi? Si può ancora contare su di lei, o è diventata uno strumento obsoleto?

 

In Italia la radio è ancora legata a un mondo estremamente mainstream, generalista e ancora adesso nella discografia, io l’ultimo disco che abbiamo pubblicato con i Siberia era stato fatto con Sugar, una delle case discografiche italiane più importanti e più forti sul medium della radio, ho lavorato con un’agenzia di comunicazione che si chiama “MA9 promotion” che si occupa di artisti come Gabbani, Irama, Ghali, che sulle radio è stata molto forte. Diciamo che in Italia un certo tipo di identità nazional-popolare di massa passa ancora dalla radio. I TheGiornalisti hanno avuto un enorme successo radiofonico  rispetto a Calcutta, perché Tommaso Paradiso e i TheGiornalisti fanno singoli che vanno in radio. Calcutta a parte forse Paracetamolo e Oroscopo non ha mai avuto grossi pezzi che funzionavano in radio, mentre i TheGiornalisti hanno riempito il Circo Massimo. Secondo me un certo tipo di affermazione nazional-popolare viene proprio dalla radio. Io conosco bene il caso di Gabbani perché fecimo le selezioni di Sanremo Giovani 2016 insieme, che poi Gabbani vinse. Gabbani prima con Amen e poi Occidentali’s Karma è fenomeno diventato un fenomeno nazional-popolare. Avendo lavorato con una major italiana per le radio è sicuramente uno degli obiettivi di avere gli artisti consacrati in radio. Avendo lavorato con una major italiana molto importante per le radio, uno degli obiettivi che si pone un’etichetta del genere è quello di riuscire a passare i tuoi pezzi in radio perché appunto prelude a un certo tipo di popolarità. Ancora adesso, per esempio Collapesce e Dimartino hanno cercato con il loro ultimo disco a ricevere questa consacrazione radiofonica perché è quello che prelude almeno in Italia ad essere davvero famosi. Se passi in radio ancora adesso in Italia vuol dire che sei famoso, non vuol dire che guadagni non vuol dire che in realtà il tuo progetto funziona: vuol dire che sei famoso. Ci sono artisti, ad esempio Gazzelle, che ancora prima di grossi passaggi radiofonici era già un artista che usciva a cifre molto alte nel circuito live. Ci sono artisti per esempio nella trap che guadagnano molto dal circuito live e dalle loro sponsorizzazioni, ma che da un punto di vista radiofonico non sono molto importanti. Un certo tipo di fama ancora oggi secondo me è ancora legato al mondo delle radio. I Siberia hanno cercato, sicuramente perché alcuni brani sono orecchiabili, di ottenere dei passaggi radiofonici. Io ricordo che noi avevamo questa “Radio Zeta”, una costola di RDS, che in Italia è molto attiva nella promozione di artisti più giovani. A mio avviso ancora la radio ha questo ruolo qui nella discografia in Italia. 

 

 

Pensando alla Francia e alla radio: cosa ne pensi della legge dei quota? Pensi sia giusto far conoscere le produzioni musicali del proprio paese al grande pubblico ? Pensi che l’Italia dovrebbe fare lo stesso?

 

Allora, penso che come proposta in se’ accoglierebbe un certo favore. Già il fatto che era stata proposta una legge simile dal PD e dalla Lega, si vede che è alquanto bipartisan, in cui ognuno potrebbe vedere dei lati positivi. Ovviamente, a farne le spese sarebbero gli artisti internazionali forse più di nicchia. In Italia è difficile ottenere qualcosa di diverso rispetto agli AC/DC o ai Rolling Stones, anche sulla Virgin. Gli artisti internazionali che vengono passati in radio in Italia, salvo rare eccezioni, sono artisti internazionali piuttosto grossi. Secondo me sarebbe anche una proposta alquanto avvantaggiosa perché tanto gli artisti internazionali rimarrebbero quelli che sono, in una quota un po’ più inferiore. Non è che però accendendo la radio in Italia ti senti il gruppo underground inglese. Secondo me avrebbe senso perché non va a penalizzare artisti internazionali che non hanno altro modo di farsi conoscere. Una proposta altrettanto valida sarebbe quella di far arrivare al pubblico dei gruppi meno conosciuti per proporre al pubblico nuovi artisti.

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