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CLEO T

Clémence Léauté, in arte Cleo T, è un'artista poliedrica che lavora tra Parigi, Berlino, e Firenze. Cleo collabora anche con l'Institut Français, che si occupa di diffondere la cultura francese in Europa e nel Mondo. 

Per saperne di più su Cleo T potete visitare il suo sito, e la sua pagina Instagram.

Per le sue canzoni? Basta cliccare qui

Foto: Clothilde BL via Cleo T su Instagram

Lei lavora tra Parigi, Berlino e Firenze, tre luoghi ricchi di culura e di tendenze, che hanno ispirato moltissimi artisti. Se posso, cosa l’ha portata verso questi luoghi?

Un po’ il caso, perché quando ho cominciato a lavorare sul mio primo album collaboravo con John Parish, il produttore di PJ Harvey, che lavora con tantissimi musicisti italiani, che mi hanno indicato un po’ chi contattare per poter lavorare in Italia. Il vantaggio dell’Italia è la sua grande rete di musicisti indipendenti che si aiutano a vicenda, che non esiste in Francia. Non è una grande fetta di mercato, ma funziona molto bene e sopravvive grazie al grande pubblico che conosce la musica, che è fan di musica. Tutto questo si riflette anche nei media, che sono molto attenti alla cultura della musica e agli intellettuali della musica. Tutto questo mi è piaciuto moltissimo. Inoltre, devo ammettere che l’Italia è per me una grandissima fonte di ispirazione perché, musicalmente parlando, ci sono molti legami tra le tradizioni popolari e la musica. È il caso dell’opera dove possiamo trovare forti legami tra le tradizioni popolari e la musica, che hanno dato vita ai più grandi pezzi mai scritti. Amo molto questa relazione di qualcosa di popolare, che è nel cuore delle genti, ma che al tempo stesso diventa una musica immensa, colta, e scritta. 

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Pensa che in Francia sia più difficile di farsi conoscere come artista indipendente piuttosto che in Italia?

No, penso che sia difficile un po’ ovunque perché in pochissimo tempo lo streaming e il digitale hanno completamente cambiato il modo di ascoltare la musica e in 5 anni, 5 anni sono davvero pochi, lo streaming ha completamente distrutto il disco. Ovviamente on dico che il discorso sia “è un bene o è un male”, ma l’avvento del digitale ha creato delle trasformazioni. Prima avevamo dei negozi di dischi, i media, dei webzine, mentre adesso abbiamo Spotify, che è una sola cosa. Come facciamo a trovare Cleo T se accanto abbiamo Billie Eilish e Beyoncé? È difficile ovunque, il contesto attuale è molto violento, specialmente se si parla di artisti indipendenti. 

Non è più semplice in Italia rispetto alla Francia, ma c’è da dire che in Francia abbiamo un sistema culturale che ha un sacco di qualità, con delle istituzioni molto forti, delle reti professioniste molto ben organizzate, delle reti per le sale da spettacolo, dei finanziamenti numerosi per la musica che sono qualcosa di ottimo. Sovente amici e collaboratori italiani mi dicono che siamo fortunati ad avere tutto ciò, ed è vero siamo fortunati, ma allo stesso tempo tutte le reti sono istituzionali, e il mondo indipendente è molto meno attivo e forte di quanto lo era negli anni ’80. C’è stata un’epoca dove i circoli dei bar musicali e delle piccole sale era molto potente anche in Francia, oggi sono dei sistemi molto istituzionali che hanno dei soldi per fare ciò che fanno, che è un mene, ma ovviamente ridisegna la scena. Ciò che ho potuto notare in Italia è che visto che purtroppo la politica culturale della musica è molto debole, cosa che è terribile per i lavoratori dello spettacolo, forza le genti che vogliono fare musica a creare delle reti locali molto forti. Per esempio il Circolo Arci è molto ben organizzato, ed è un qualcosa che non esiste in Francia. Si cerca di creare qualcosa di simile, ci sono delle regioni e delle città che stanno cercando di creare dei circoli simili, dove i musicisti e artisti indipendenti cercano di fare ciò che esiste già in italia. 

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Al giorno d’oggi abbiamo assistito a una mutazione dell’ascolto musicale. Se si prende la radio ad esempio, si ha l’impressione di ascoltare sempre lo stesso pezzo, in Francia come in Italia. Cosa ne pensa? 

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La produzione, come la diffusione è un processo che si è standardizzato molto. Il 90% delle produzioni vengono da Parigi, quando ci sono produzioni un po’ ovunque meno standard. Ho molti amici italiani che prima mi dicevano “in Francia avete molte radio, qui abbiamo la Rai che è standard”…ma adesso anche qui in Francia abbiamo un’uniformazione della diffusione. Se si prendono in considerazione le classifiche nazionali di Spotify, Italia e Francia, per prima cosa abbiamo nomi nuovi e dei n.1 in classifica che personalmente non ho mai visto o sentito in vita mia, ma si può anche notare che il 70% del mercato è Rap. Un solo genere che domina il mercato nel paese. Il rap va bene, è ottimo, ma lui da solo fa già il 70% del mercato, è enorme! La musica dovrebbe essere globale, e rappresentare tutta la popolazione. Grazie a Spotify abbiamo il fatto re età, in effetti molto spesso ci si basa sui social per far avanzare gli artisti. Però non ci sono solo i giovani che ascoltano la musica, e a lungo andare diventa triste vedere una sola categoria rappresentata. 

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La sua discografia è una meravigliosa fusione di generi musicali diversi. Passiamo sovente da assoli di musica classica a musica moderna, più attuale come il pop e il rock, ma passiamo anche da una ligna all’altra. Lei ci fa capire che in realtà, la barriera linguistica esiste solo nelle orecchie di chi la vuole sentire. Cosa le ha dato l’idea di cantare in lingue diverse?

Viene un po’ dall’opera, che è un po’ una storia europea. La musica dell’opera, la sua musicalità viene dalle voci e dalle lingue. In Francia è difficile avere canzoni in lingue diverse, per via dei quota in radio per la musica francese. Personalmente trovo che è ottimo voler preservare la cultura francese, io spesso lavoro con gli Instituts Français per la propagazione della cultura francese nel mondo; però ci hanno detto che siamo europei, e se la musica non può inglobare le lingue, come possiamo viaggiare nelle altre culture? Il cantare in lingue diverse è un processo, una dinamica che resta alquanto difficile da accettare, non dal pubblico, perché se lei me l’ha chiesto vuol dire che c’è qualcuno a cui piace e interessa, ma soprattutto dall’industria. Bisogna abbattere un po’ le barriere delle etichette, aprire i propri orizzonti.  

 

Il concetto di discografia ha cambiato nel tempo. Come è cambiata e come si è evoluta secondo lei?

 

La produzione discografica in se esiste ancora, certo è evoluta moltissimo. Esiste ancora la figura del produttore, anche se si registra molto di più in casa che in studio. Ovviamente con l’affermazione “tutti possono produrre un disco in casa” si è svalutato molto il prezzo della musica, negli anni. La musica è un sapere, una formazione e trovo che ultimamente non viene riconosciuto abbastanza il lavoro del musicista. È un bene che le produzioni musicali siano aperte a tutti adesso, ma rimane un problema perché meno si conosce un qualcosa, meno si è capaci di giudicarla. È un po’ quello che è successo negli ultimi anni, il livello di qualità delle produzioni musicali si è abbassato perché siamo molto meno legati alla musica in generale. Se si pensa alle musiche del mondo per esempio, non ci si può mettere a suonare uno strumento tradizionale su due piedi, perché per saperlo suonare bisogna studiare anni e anni. Penso che se studiassimo la musica oggi saremmo molto più critici di cosa passa in radio. 

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Se ci concentriamo sul contesto attuale di questa pandemia globale, il suo mestiere ne ha purtroppo sofferto molto. Com’è cambiato il contatto con il pubblico e com’è cambiato il mestiere dell’artista nel 2020?

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Faccio parte del gruppo che è stato privilegiato dal lockdown, per ragioni personali. L’arresto forzato mi ha permesso di recuperare tutto il tempo di scrittura arretrata durante il primo lockdown. Al rientro, sono riuscita ad avere un primo approccio con il pubblico perché a settembre sono riuscita ad esibirmi. Con il secondo lockdown ho rimpiazzato il live con la ricerca e la creazione musicale, sono riuscita a fare esibizioni via streaming. La creazione prende molto tempo ed è quindi un bene se siamo riusciti a fermarci perché ho usato questo tempo nella creazione. Ovviamente il 2021 sarà un anno molto più complicato perché non sappiamo dove si va. È molto importante fermarsi ogni tanto per rivedere le priorità. 

 

Le nuove tecnologie hanno aiutato molto il processo artistico a prendere vita quest’anno…pensa che l’industria dello spettacolo “live” possa ancora essere salvata, o stiamo assistendo alla morte dello spettacolo?

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Lo spettacolo non potrà mai morire perché anche se ci si trova in contesti molto difficili, ci si rende conto della sua importanza. Se prendiamo in considerazione il movimento che si è creato attorno al libro in Francia, grazie ad esso ci siamo resi conto quanto sia importante il libro e la lettura. Penso che lo spettacolo sia troppo grosso per morire, anche per cosa rappresenta nella classe culturale in paesi come la Francia e l’Italia. In Francia abbiamo la fortuna di essere aiutati dallo Stato in quanto artisti intermittenti, dove anche le sale convenzionate hanno ricevuto sovvenzioni. Ho l’impressione che la crisi penalizzerà i grandi concerti e i grandi festival, ma non gli artisti indipendenti che già hanno l’abitudine di lavorare con poco, artisti che si aiutano a vicenda, che fanno tutto per l’arte e non solo per essere conosciuti. Sì, c’è una grande difficoltà oggi per i concerti e per chi lavora dietro le quinte, ma è anche un bene fare un po’ di pulizia, ritornare un po’ alle basi. Non siamo un commercio, siamo persone che hanno un altro modo di vedere le cose, e non possiamo essere considerati solo per il nostro lato commerciale. 

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